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AIIC Italy News

26/03/2024
“La lingua che conviene”, Daniele Mazzacani | Domande e Risposte

Uno studio sulla lingua italiana per generare un dibattito concreto e delineare una politica linguistica, ma anche una rigorosa analisi interdisciplinare di fattori e dinamiche che riguardano la comprensione e l’appartenenza a una comunità linguistica e culturale. Sono gli obiettivi alla base della ricerca La lingua che conviene. Dagli anglicismi alla comunità, per pensare una politica linguistica nazionale, promossa da AIIC Italia e condotta da Daniele Mazzacani, Economista e Membro del Gruppo di ricerca in Economia, Analisi delle Politiche e della Lingua – Scuola di Scienze sociali e politiche applicate dell’Università dell’Ulster (Regno Unito). “Il dibattito pubblico, non specialistico sull’italiano, beneficerebbe di una diffusione di concetti fondamentali connessi alla lingua, provenienti dalla linguistica e da molte altre discipline che ne studiano aspetti extra-linguistici cruciali”, commenta Mazzacani, che spiega nel dettaglio cosa c’è dietro lo studio e gli aspetti più interessanti emersi.

Qual è l’obiettivo più profondo di questo studio?
Non si tratta certamente (e per fortuna) del primo tentativo di divulgazione su lingua e temi linguistici. Tuttavia, questo studio pone l’accento sugli aspetti non puramente linguistici della lingua, su un approccio interdisciplinare che è indispensabile per comprenderne la complessità, e su una divulgazione che cerca di chiarire i concetti basilari, per favorire una partecipazione più ampia e consapevole da parte della comunità.

Molti linguisti, come sottolinea anche lo studio, ritengono che il cambiamento linguistico sia un fenomeno naturale e spontaneo, il risultato di forze sociali e/o linguistiche sottostanti che è impossibile alterare. È vero? Cosa dicono invece gli studi?
No, non è così, per una serie di motivi che vengono ampiamente approfonditi nello studio. Alla base ci sono ricerche condotte non solo in campo linguistico puro, ma in ambito sociologico, psicologico, economico e geopolitico. Cosa significa davvero naturale e spontaneo? Sono spiegazioni incomplete che rischiano di lasciare confuso il pubblico non specialistico. Chi vede i cambiamenti della lingua come un fenomeno naturale e spontaneo lo fa, spesso, espandendo poco (o per nulla) la propria analisi al di là dei confini della linguistica. Questo porta a ignorare, o a studiare in modo sommario o limitato, proprio quelle dimensioni extra-linguistiche spesso indicate come cause fondamentali del cambiamento.

Quindi per comprendere le dinamiche e i fenomeni linguistici serve un approccio interdisciplinare?
L’interdisciplinarità non è un dovere, e non c’è alcun obbligo di uscire dalla propria disciplina. Chi non lo fa, però, dovrebbe essere prudente nel definire naturali e spontanei dei fenomeni che riguardano molte discipline diverse, e che ogni analisi monodisciplinare può studiare solo in modo incompleto. Non è necessario che i linguisti diventino sociologi, psicologi, economisti, analisti geopolitici o altro: per comprendere meglio le dinamiche extra-linguistiche però è necessario essere consapevoli dell’importanza dell’interdisciplinarietà in questo ambito e guardare alla ricerca in queste e in altre discipline, integrandole alle proprie conoscenze. Solo così sarà possibile avere un quadro funzionale d’insieme.

Quanto conta oggi nel nostro Paese la lingua come “bene” culturale, esattamente come i beni architettonici o tutto il patrimonio proprio della nostra storia? Quale politica viene portata avanti e quali i limiti attuali?
In generale, possiamo affermare che la lingua conta sia in termini monetari (con introiti per il sistema economico e culturale) che non monetari, ossia maggior visibilità e peso nelle relazioni internazionali. Questo vale anche per l’Italia e la sua lingua nazionale. Però per l’italiano è difficile stimare questo valore, perché servirebbero studi approfonditi e rigorosi che raccolgano e analizzino dati specifici a questo scopo e che purtroppo sono quasi del tutto assenti per la nostra lingua.

La stessa cosa vale anche per le altre lingue?
Non sempre. In altri Paesi e per altri idiomi (e non parlo solo di grandi lingue internazionali) si è tentato e si tenta di identificare e stimare questi valori, e anche di incrementarli. Nello studio riporto al lettore alcuni esempi concreti relativi a stime sul valore di lingue come, per esempio, l’inglese e lo spagnolo, ma anche il polacco. È convinzione mia e di AIIC Italia che conoscere questi e altri esempi possa aiutarci molto a ragionare sulla nostra lingua nazionale, perché allo stato attuale una politica linguistica per l’italiano che sia esplicita, consapevole, partecipativa, ufficiale e coordinata, semplicemente, non esiste. Al suo posto abbiamo iniziative più o meno sporadiche, puntuali e disordinate, o un diffuso disinteresse che è ben diverso da una spesso non meglio definita “evoluzione naturale” della lingua, e si traduce in una più concreta “legge del più forte”. Cercando di stimolare un dibattito pubblico più informato, nello studio discuto sia il concetto di evoluzione naturale di una lingua che quello di politica linguistica, partendo dalla letteratura scientifica e calandomi poi nel contesto concreto dell’Italia e dell’italiano. 

Quanto ha influito negli anni la diffusione dell’inglese come lingua globale - anch'essa spesso snaturata dalle sue più profonde peculiarità per diventare “globish” - sullo sfaldamento di una forte politica di tutela della nostra lingua madre?
Il globalese, o globish, accompagna varie parti dello studio, a volte emergendo più esplicitamente (parlando di anglicismi, multilinguismo e geopolitica) e altre volte scorrendo più sottotraccia. Eppure, non lo ritengo in sé il fulcro di ogni problema dell’italiano. L’inglese globale ha influito e influisce senza dubbio sull’assenza di politiche linguistiche esplicite in Italia, e sul progressivo sfaldamento (cioè, sul cambiamento caotico, privo di adattamento e integrazione) delle strutture della nostra lingua nazionale. Tuttavia, questo non è solo frutto di una sua forza innata, ma anche di una profonda insicurezza linguistica degli italofoni d’Italia, che ha profonde radici extra-linguistiche e che gioca un ruolo centrale in questa dinamica. In altri termini, con un’insicurezza così profonda dei parlanti verso la propria lingua, l’italiano sarebbe pesantemente influenzato dalla lingua globale anche se questa non fosse l’inglese ma, per esempio, lo spagnolo, il tedesco, il cinese o l’arabo. Anche per questo, come argomento nello studio, un dibattito sull’italiano più efficace deve necessariamente recuperare e dare spazio a una riflessione profonda – e non solo prettamente linguistica – sugli italiani e sul loro rapporto con la lingua nazionale.

In questo contesto, i forestierismi o gli anglicismi introdotti ufficialmente nella nostra lingua costituiscono, secondo lei, un arricchimento o un impoverimento? 
Vista l’infiammabilità di un dibattito che riemerge periodicamente, ogni risposta è incompleta senza una serie di premesse e precisazioni. Di certo, c’è un elemento essenziale, ossia che troppo spesso il dibattito non specialistico sul tema ignora concetti e distinzioni fondamentali e risulta, in sintesi, confuso e distorto. Un esempio pratico di concetto mancante è quello del grado di adattamento di questi termini. Se tenuto a mente, ci porta a una distinzione fondamentale, ovvero: di quali forestierismi o anglicismi parliamo? Integrali, come nel caso di chef, hinterland o smart? Parzialmente adattati alle strutture linguistiche dell’italiano, come le parole camion, bus o sciampo? O completamente integrati, pur se di origine esterna, come le parole gioia, disguido e atollo? Si può capire come la discussione cambi, anche di molto, considerando o no questo aspetto.

Come sono sviluppati questi punti nello studio?
Cerco di schematizzarli, snellirli e analizzarli, ma anche di evidenziare come una conoscenza dei concetti di base (e non per forza specialistica) possa aiutare a comprendere meglio e partecipare a un dibattito sempre più sentito e necessario. Nello studio esprimo chiaramente anche le mie posizioni, ma vorrei che i lettori le leggessero alla luce di quei concetti e distinzioni che reputo fondamentali, oltre che di una serie di dati concreti che riporto e discuto. 

La lingua è un’entità viva che cambia, si arricchisce, si adatta a nuove esigenze comunicative: l’italiano è riuscito e sta riuscendo a farlo senza attingere al di fuori di sé?
Penso che, se i suoi parlanti ne prenderanno gradualmente coscienza e sicurezza, l’italiano abbia in sé risorse per generare una gran parte di ciò che gli serve per far fronte alle nuove esigenze comunicative. Tuttavia, voglio anche sottolineare come l’attingere a risorse linguistiche esterne in modo generico e indistinto sia fuorviante e penalizzi molto il dibattito tra non specialisti. In questo modo, non si vede chiaramente né cosa, né come questo elemento venga attinto da fuori, cementando tutto in un unico blocco indistinto che mescola tra loro casi e categorie molto diversi, e con effetti altrettanto diversi sulla nostra lingua. Piuttosto riformulerei la domanda.

Come?
“L’italiano è riuscito e può riuscire a cambiare, arricchirsi e adattarsi a nuove esigenze comunicative anche attingendo al di fuori di sé, e senza snaturarsi profondamente?”.

E cosa risponderebbe?
A questa domanda, che mi è stata fatta anche dagli interpreti di AIIC Italia, la mia risposta è “sì”, e alcuni dei “perché” sono analizzati in dettaglio nello studio. La risposta collettiva, sempre più necessaria, deve venire da un dibattito nazionale il più possibile partecipato e informato, al quale lo studio vuole offrire materiali e spunti di discussione.

La lingua madre è anche uno strumento profondamente democratico per mettere parlante e ascoltatore sullo stesso piano in un dialogo comunicativo paritetico, soprattutto in ambiti delicati come quello legale e/o medico. Come dovrebbe muoversi in questo senso una politica linguistica?
Una politica linguistica efficace dovrebbe tutelare l’interesse pubblico alla maggior comprensibilità possibile dei contenuti, sia negli ambiti citati che in altri ambiti di importanza crescente, come elettronica e digitale, e sicurezza informatica. Per farlo deve agire sulla lingua comune dei parlanti, che è lo strumento essenziale di interazione sul quale si basa ogni comunicazione chiara, trasparente e paritaria, assicurando quanto più possibile che questa sia davvero condivisa dalla maggior parte della collettività linguistica. I modi per farlo sono molti e diversi, e dipendono sia dai soggetti coinvolti che dagli elementi linguistici ed extra-linguistici del contesto di riferimento. Per esempio, quelli che citate nella domanda toccano senza dubbio le istituzioni pubbliche, nazionali e locali. Credo e spero che temi come questo ricevano sempre più attenzione perché, come argomento nello studio, per l’italiano d’Italia l’analisi segnala la mancanza di una politica linguistica efficace, anche a livello di istituzioni pubbliche, con esempi eclatanti di burocratese, anglicismi e altri gerghi che ne riempiono e oscurano le comunicazioni.

Cosa succede negli altri Paesi e qual è il confronto con l’Italia?
Benché molti percepiscano l’estero come un soggetto monolitico e uniforme (per tante cose, “all’estero funziona così”), l’estero è fatto di nazioni diverse tra loro pure in termini di lingua, politiche linguistiche e temi connessi, e non è possibile dare una risposta sintetica e univoca. Nello studio cerco di ridurre la complessità guardando ad alcuni Paesi europei, in diversi modi simili al nostro, e nonostante questo mi trovo di fronte a grandi differenze. Penso che queste differenze siano di grande aiuto, specialmente perché ci mostrano quanto molte convinzioni sulla lingua o comportamenti linguistici che consideriamo “ovvi e universali” siano in realtà tali solo in alcune regioni o Paesi, o addirittura solo nel nostro Paese. Sia io che i membri di AIIC Italia pensiamo che questa consapevolezza sia cruciale per svincolarci da luoghi comuni o pregiudizi che inchiodano il nostro dibattito sulla lingua a schemi determinati e ristretti, e per poter guardare alla nostra lingua e alle sue possibili traiettorie attingendo a nuove idee e risorse.

Come si può misurare oggi il valore economico di una lingua?
Il valore economico di una lingua è molteplice, composto di elementi diversi e complessi, che l’economia delle lingue cerca di identificare, determinare e studiare. È un valore che si basa sia su termini monetari reali (effettivi o potenziali) che su valori assegnati da individui o gruppi in base a motivazioni personali, collegiali o sociali (e in parte quantificabili). Nello studio si trovano due concetti importanti, che provengono dall’economia e che si collegano ai valori di una lingua. Il primo è quello di disponibilità a pagare (DAP), che permette di estendere la nozione di valore economico anche a beni non sempre o non completamente commerciabili, sintetizzabile come risposta alla domanda “quanto pagheresti per…?”. Il secondo concetto è quello di alienazione linguistica, e riguarda i valori individuali e collettivi connessi alla potenziale discriminazione che si produce quando una parte della popolazione non parla una determinata lingua. Esempi di disponibilità a pagare espressi in termini monetari reali ed effettivi sono quelli di prodotti basati sulla lingua: film, trasmissioni, libri, fumetti, giornali e altri che i parlanti (nativi o stranieri) sono disposti a pagare anche perché sono in una certa lingua. Il concetto di alienazione linguistica si collega senza dubbio a valori monetari, come i molti effetti (individuali e collettivi) sul mercato del lavoro di una lingua richiesta e poco conosciuta, ma anche a effetti di equità, democrazia e partecipazione alla vita politica e pubblica.

Lo studio illustra inoltre i potenziali effetti di alienazione linguistica che si produrrebbero nell’Unione europea se le istituzioni adottassero solo l’inglese come lingua ufficiale comunitaria. Questo perché, nonostante sia convinzione diffusa, l’inglese non è così conosciuto come si pensa. Un tema che non riguarda solo l’Europa del Sud, ma anche molti Paesi del Nord o del Centro Europa, dove spesso persiste il falso mito di una conoscenza dell’inglese che in realtà è superficiale o appena sufficiente, ma sicuramente non adatta a una comunicazione efficace e completa. Questo significa che, se l’UE decidesse di usare solo lingue come l’inglese, il tedesco e il francese, questo comporterebbe una forte alienazione linguistica, nel senso che verrebbe meno o sarebbe fortemente ridotta la partecipazione democratica di tutto il resto della popolazione europea.

Qual è in questo contesto il ruolo degli interpreti e traduttori e perché è così prezioso?
Gli interpreti e i traduttori hanno le competenze e la sensibilità per essere dei custodi consapevoli del multilinguismo e della diversità linguistica, oltre che essere promotori attivi di democrazia comunicativa. Interpreti e traduttori sono in grado di adattare la comunicazione non solo alle differenze culturali tra chi parla e chi ascolta, ma anche alle intenzioni comunicative del primo verso il secondo. Creano un filtro individuale che è frutto non solo delle loro competenze tecniche, ma anche delle loro capacità e sensibilità umane, lavorando per mettere le due parti su un piano di effettiva parità comunicativa. Questa parità comunicativa ha, da una parte, un effetto positivo sui singoli individui e dall’altra, aggregando le varie interazioni, dà benefici alle rispettive comunità linguistiche. In questo modo gli individui e le comunità linguistiche non subiscono passivamente il contatto con altre lingue e culture, rischiando di esserne investiti, ma si rapportano paritariamente a queste, comprendendo e integrando meglio i concetti e le conoscenze trasmesse.