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AIIC Italy News

02/11/2023
LaLinguaMadre e la “democrazia linguistica”
La lingua italiana fa parte del patrimonio artistico e culturale che fa grande l’Italia e la fa amare nel mondo. Non è diversa da tutte le lingue. Anzi, lo è. E questo perché tutte le lingue hanno una loro unicità che va salvaguardata, coltivata ed esaltata. Su questa scia già nel 2021 AIIC Italia ha avviato la campagna LaLinguaMadre con l’idea di accendere i riflettori sull’importanza e la tutela del multilinguismo. “Non si tratta di salvaguardare o di conservare le lingue, che non sono cimeli polverosi, né di ingessarle dentro a un reticolo di regole, alle quali peraltro sono refrattarie per la loro stessa natura evolutiva, semmai di rendere consapevoli le entità pubbliche, culturali e istituzionali, del valore economico e democratico di una comunicazione accessibile ed inclusiva per tutta la comunità dei parlanti”, spiega Luisa Malentacchi, vice Presidente di AIIC Italia e ideatrice del progetto LaLinguaMadre. La possibilità di comunicare in maniera chiara e senza zone d’ombra in una lingua che conosciamo e possediamo fin da bambini è, infatti, la più grande espressione di democrazia possibile, come conferma anche l’attento e incessante lavoro degli interpreti di conferenza, che fanno della salvaguardia del plurilinguismo la loro battaglia professionale.

Qual era l’obiettivo iniziale della campagna che poi si è tramutata in un vero e proprio progetto di “consapevolezza” e “salvaguardia” della nostra lingua? E come si è evoluto?
La campagna de LaLinguaMadre ha sempre avuto un doppio obiettivo. Il primo è quello di far uscire l’interprete dalla cabina e portare alla luce la sua figura come agente culturale ed intellettuale. Se è vero che siamo onesti manovali della parola e che la professione è tecnica, è anche vero che presuppone una conoscenza enciclopedica e uno studio continuo, e che la sua funzione ultima, ovvero la comunicazione, è vitale per le interazioni umane a tutti i livelli. Un mondo dove non ci si capisce, e l’attualità purtroppo lo conferma, è sicuramente un mondo peggiore. Il secondo è quello di promuovere le madrelingue, che sono la nostra “materia prima”, come professionisti e come individui, la casa della nostra identità.
Se nella prima edizione abbiamo utilizzato il dilagare, spesso indebito, degli anglicismi come spunto di provocazione, nell’edizione 2024 de LaLinguaMadre facciamo un passo avanti, e chiamiamo la comunità dei parlanti a partecipare ad un cantiere comune, per una possibile politica linguistica italiana moderna. Che sia davvero per tutti e basata su incentivi e non su paletti e limiti.

Com’è possibile oggi tornare a un utilizzo più consapevole della lingua madre in contesti professionali sempre più multiculturali dove una lingua comune facilita processi e scambi?
Non dobbiamo tornare indietro, ma neppure restare fermi. Dobbiamo andare avanti, ma con una visione più democratica e genuinamente pluralistica. Sembra banale, ma un contesto è multiculturale solo se le culture che ne fanno parte sono più di una. Il pluralismo culturale e linguistico, da tanti sbandierato, è matrice di ricchezza umana solo in un sistema dove ogni identità culturale ha uno spazio di coabitazione, si sente appagata, libera di esprimersi, di crescere e di adeguarsi al mondo che cambia generando forme, lemmi e concetti propri, anche nei settori tecnici, senza essere costretta ad appiattirsi su moduli espressivi esterni e semplificati che ne tarpano la creatività e ne diminuiscono la sfera d’influenza. Certo, è comodo avere a disposizione una lingua veicolare, che sia l’inglese o l’esperanto non importa, ma non a costo di una perdita di vitalità delle altre, non a costo dell’esclusione di chi non usa o non capisce la lingua veicolare del momento, non se questo equivale a dire quello che si riesce a dire e non quello che veramente intendiamo dire.


 
Da una parte c’è un tema grosso di tradizione, dall’altro di innovazione inarrestabile: quanto è importante tramandare la lingua madre e come è possibile farlo e, al tempo stesso, continuare a farla crescere ed evolvere sulla base delle sempre nuove esigenze espressive?
Dobbiamo impostare insieme una politica linguistica su binari nuovi, scrollandoci di dosso le “ragnatele ideologiche”, partendo dal presupposto che la lingua madre non è mai una coperta corta, e non ha figli preferiti, tenendo a mente che andare incontro alle esigenze di comprensione degli uni non significa escludere gli altri. Nella lingua c’è spazio per un’evoluzione in tutte le direzioni e ogni parte della comunità dei parlanti può rivendicare il proprio diritto a capire ed essere capita, a sperimentare ed essere incoraggiata, anche finanziariamente, e ad espandersi.

Come fare concretamente?
Bisogna trovare spazi di sperimentazione per soddisfare le esigenze crescenti della società e dare voce alle diverse identità di genere. È necessario inoltre rispettare il diritto di un’offerta formativa completa in italiano, utilizzare una lingua accessibile a tutti nelle comunicazioni istituzionali, incentivare i settori che vivono di lingua italiana, come l’editoria, la traduzione e l’interpretazione e la convegnistica, ma anche sfruttare le potenzialità economiche dell’italiano come sfruttiamo il patrimonio artistico e culturale del Paese, usare l’italiano come veicolo di influenza culturale. Se tutte queste ragioni non bastassero ce n’è ancora una, se vogliamo addirittura più intrinseca: l’italiano è una lingua bellissima, quindi “metterla a reddito” non è una missione impossibile, semmai il contrario.

In Italia il dibattito su questi temi non è molto usuale ma la curiosità c’è: come si sta evolvendo la nostra lingua, sia in positivo che in negativo?
In Italia un dibattito vero su questi temi manca completamente. Quello di cui c’è sovrabbondanza, invece, è la polemica sterile, con scambio reciproco di epiteti e di etichette, tra chi vuole la schwa e chi no, tra chi vuole le multe per gli anglicismi e chi le deride, tra chi cerca soluzioni per un accordo di genere più prossimo al nostro modo di essere e di vivere e chi grida allo stravolgimento dell’ordine costituito e della tradizione. Il fatto è che ogni cambiamento va nutrito e accompagnato, senza perdere mai di vista il fine ultimo, che è l’efficacia del nostro codice unico ma comune, la sua capacità di mutuare dall’esterno senza perdere la versatilità caratteristica di ogni lingua madre. La nostra lingua è lo strumento che ci permette anche di esprimere e rendere i dettagli e le sfumature, le emozioni generazionali e soprattutto l’intenzione che mettiamo nel comunicare, ben al di là delle parole. Per questo ci vuole una politica linguistica moderna e strutturata, e non alzate d’ingegno estemporanee, tentativi di forzare la mano o recrudescenze di “polizia linguistica”.
La cosa bella è che questo amore genuino lo sentiamo in tanti, quella brutta è che c’è troppa ideologia, la speranza di lavorare insieme si perde, come spesso succede nella ricerca del bene comune. Dunque, l’italiano potrebbe essere in piena salute, forse è chi lo parla che non sta tanto bene.

La costante presenza di anglicismi è forse un “sintomo” di progressivo “deterioramento” della nostra identità linguistica: qual è la cura preventiva? A volte sembra che - come nel caso degli anglicismi - ci sia un obiettivo voluto di “sporcare” un po’ la comunicazione con elementi equivoci. Quanto questo delicato equilibrio rende sempre più difficile oggi il lavoro dell’interprete?
Le lingue sono come i bambini, non c’è modo di farle stare ferme, e oltretutto non dormono mai, neppure quando usate come mezzo di oppressione. Travasi e prestiti da lingue straniere ci sono sempre stati e ci saranno sempre, perché le lingue sono vasi comunicanti, e nessuno ha mai avuto nulla da eccepire, men che meno noi interpreti, che proprio in virtù del nostro plurilinguismo questi travasi dobbiamo seguirli in tempo reale, aggrappati alla corrente.
Altra cosa, però, è il tentativo di sporcare la comunicazione con dati di significato equivoco, persino per chi l’inglese lo sa. Le ragioni sono svariate: pigrizia, provincialismo, scarsa consapevolezza, ignoranza e purtroppo un certo grado di malafede. Promettere o chiedere in modo non percepibile da tutti, con espressioni che non circoscrivono la sostanza delle cose significa poter eludere la responsabilità di rispondere di quanto promesso, esigere quanto non si è chiesto, vendere quello che non si ha.
Ogni concetto ha una sua trasposizione comprensibile, l’intraducibilità esiste solo in una manciata di casi, contrariamente a quello che spesso si dice. Un interprete è il filtro che facilita la comprensione in un momento specifico, in un contesto specifico, tra persone vere, traduce l’intenzione, non le parole, e il suo sforzo è da sempre volto a traghettare il messaggio non solo da una lingua, ma da una realtà culturale ad un’altra.

Come AIIC avete un punto di vista privilegiato sul mondo potendovi confrontare quotidianamente con i vostri colleghi dei diversi Paesi: com’è in generale la situazione della “tutela” della lingua madre negli altri Paesi anche in confronto con l’Italia?
Sempre tenendo a mente che la lingua si tutela solo facendola crescere, gli esempi di politiche linguistiche attive e moderne negli altri Paesi sono moltissimi. In Italia è ancora radicato il luogo comune che l’unico modello di politica linguistica sia quello del Ventennio fascista, con le parole straniere vietate e le traduzioni forzate. Ma i tempi sono cambiati, noi siamo cambiati, e non vedo perché non si possano esplorare nuove formule, certo non di stampo dispotico. Ci sono Paesi che nessuno oserebbe definire dirigisti che sostengono la propria lingua madre con politiche incentivanti, sostegno economico alla traduzione, all’uso su internet, sovvenzioni alle iniziative che integrano l’insegnamento della lingua nel circuito economico e del turismo, promozione estera dei prodotti culturali nella lingua del Paese, supporto ai corsi universitari plurilingue, ai dipartimenti di linguistica che sperimentano evoluzioni che rendano la lingua più inclusiva, insegnamento di sostegno della lingua per chi ci vive e lavora ma non parla la lingua, per chi in un Paese crescerà, pagherà le tasse, compilerà moduli, ma viene da una famiglia alloglotta.
Si tratta di atti concreti, incastonati all’interno di un piano coerente che investe tutti i campi. Tanti Paesi grandi e piccoli, dalla Spagna alla Slovenia, dall’India alla Svezia, per non parlare di Francia, USA e Inghilterra, hanno capito che tradurre non costa, semmai conviene, socialmente, democraticamente ed anche economicamente.
Ricordiamoci che non attuare una politica linguistica è già di per sé una scelta di politica linguistica, solo meno sana delle altre.

Quali i prossimi passi del progetto?
Sul tema abbiamo realizzato uno studio, commissionato a Daniele Mazzacani, giovane Economista della lingua. Inoltre, stiamo lavorando alla seconda edizione del Festival de LaLinguaMadre 2024 presso la Sala capitolare del Senato a Roma in occasione della Giornata Mondiale delle Madrelingue, che cade ogni anno il 21 febbraio.
Si tratta di un progetto snello, che non ha nessuna affiliazione politica, né la desidera, nessuna pretesa di imporre soluzioni, nessuna esigenza di virtuosismi retorici: il nostro obiettivo è riunire esponenti di tutti i settori che vivono di lingua madre. Gli ospiti, tutti di caratura nazionale e internazionale, si avvicenderanno in una serie di conversazioni condotte da una giovane moderatrice, Beatrice Cristalli (Treccani) ove ognuno potrà esprimere la propria visione di quella che potrebbe essere una strategia linguistica equa, strutturata ed evolutiva. Un modo per ragionare assieme su possibili, soluzioni, evoluzioni e proposte.
Proprio come è avvenuto nella prima edizione, che ha visto la partecipazione di personaggi del calibro di Corrado Augias, Dacia Maraini, Vera Gheno, l’adesione entusiasta che abbiamo ricevuto da tante personalità degli ambienti più disparati ci conferma che siamo in tanti a sentire l’esigenza che delle lingue madri si parli e che lo si faccia in modo diverso.